Sos Flori
Cabras, tzittadina costiera est numenata
vantata pro istagnos, mare e bellesa,
terra dae sos turistas visitata
e dae piscatores populata.
E issos chin lamparas, martavellos e chiattinos
pro achere svilupare sos mestieres,
travallain impare, fizos, maritos e muzeres.
Sa familia Flori dae inie est arrivata
e in sa Caletta a postu raicrina,
juchende novitate a custa zona marina.
Anzelinu Flori, sinzeru e chin carchi imbriachera
imparatu at a sos fizos a travallare in pischera.
Peppinu, Mario, Nando andain a piscare,
ambidda, capitone e muzine sichiana a carrare. (…)
Amarcord
Di recente ho riletto questa poesia che la mia amica poetessa Marcella Bandinu ha dedicato ai componenti della famiglia Flori, famiglia di cui io faccio parte essendo figlia di Peppino Flori. Non mi ero mai soffermata a sufficienza a leggere, nei vari versi di cui si compone la poesia, le tracce ben delineate delle origini della mia famiglia, soprattutto per quanto riguarda l’attività lavorativa per cui sono da sempre conosciuti i suoi diversi componenti.
La Famiglia Flori, con in testa mio nonno, Angelino Flori, provenivano dalla peschiera di Pontis a Cabras.
Chissà come mi è ritornata in mente, rileggendo la poesia, la mia infanzia, la figura di mio padre, giovane pescatore “cabrarissu” e tutte le diverse attività che contraddistinguevano le sue giornate lavorative, i pesanti impegni che doveva affrontare quotidianamente e che venivano scanditi dall’alternarsi delle stagioni.
La sua possente corporatura era per me sinonimo di uomo forte, piantato bene a terra coi suoi non indifferenti piedi perennemente scalzi, durante il periodo della bella stagione, caratteristiche peculiari che lo riportavano alle sue origini di Cabras: potete tranquillamente verificare questa attitudine a stare scalzi anche attraverso le immagini della famosa ”corsa degli scalzi”, ricorrenza religiosa molto sentita a Cabras, in occasione della festività di San Salvatore, la prima settimana di Settembre, che si svolge tra Cabras e S. Salvatore di Sinis.
Nella mia mente si affollano i ricordi di me bambina o poco più, di estati trascorse con tutta la famiglia nella peschiera di Graneri, tra La Caletta e S. Lucia, al seguito di nostro padre che in quel periodo gli necessitava restare tutto il giorno nel luogo dove lui lavorava, coadiuvato dal suo fedele compagno di lavoro, Salvatore Lai.
Era per me motivo d’orgoglio vedere mio padre ricompensato, nel suo pesante lavoro di pescatore, dalle pescate molteplici e abbondanti che riusciva a fare.
Lui non conosceva fatica, non esistevano orari di lavoro fissi, ma era un impegno costante e oneroso quello che lui profondeva nel suo lavoro, svolto con dedizione, maestria e abnegazione.
Ricordo quando partiva a piedi scalzi appunto, sotto il sole cocente estivo, o in piena notte a controllare un luogo per lui preziosissimo per la riuscita della giornata lavorativa: “l’isolotto”.
Era lì che lui aveva costruito e posizionato, all’imboccatura della foce che collegava lo stagno al mare la “mandra”, una costruzione tutta fatta a mano da lui, composta da diverse “campate” di canne legate tra di loro, a formare una doppia V, con l’apice rivolto al mare.
Questa costruzione rappresentava uno stratagemma per bloccare i pesci, raccoglierli in abbondanza e potersi giovare dell’introito che si ricavava dalla loro vendita.

Con le sue vigorose remate con cui mio padre trasportava, quando lavorava col chiattino, tutto l’occorrente per la pesca fatta di notte, ai miei occhi di bambina appariva come il dio Nettuno, possente e padrone delle acque che lui conosceva benissimo e sapeva anche farle fruttare.
Era entusiasmante vederlo rientrare col pescato e ammirare le diverse tipologie di pesce ancora vivo che portava a riva. Un’immagine che non dimenticherò mai era la sua maestria e la precisione nell’ estrarre dal muggine appena pescato le prelibate bottarghe che affidava con tanta delicatezza, passandole dalle sue mani forti e smisurate, nelle mani più delicate di mia madre, Anna Maria Bandinu.
A lei toccava il compito molto speciale di trattare le preziose bottarghe appena estratte, pulirle e metterle per diverse ore sotto sale, per poi farle essiccare al sole, poste su tavole di legno e coperte con veli di tulle.
Mia madre, classica casalinga e madre di diversi figli, aveva imparato da mio padre l’arte della conservazione di questo prodotto così apprezzato e bramato da diversi intenditori. Lei, donna semplice e genuina, ci ha sempre ricordato quei momenti in cui si sentiva parte integrante del lavoro di mio padre, con tenerezza e orgoglio per essere stata depositaria di un simile compito.
Quanti altri ricordi ancora si affollano nella mia mente, quanti volti si affastellano con tutto il trasporto di affetto a loro legato…
Non sapevo allora che stavo vivendo momenti belli, intensi, carichi di un sentimento che forse non avrei più provato!
Vedi, Marcella, quanti racconti hanno fatto emergere i tuoi versi!
Mi fermo qui col mio AMARCORD, perché certi ricordi portano con loro anche sensazioni amare, difficili da mandare giù…
Solo un grazie dovuto a chi mi ha dato la vita, mio padre e mia madre!
Giovanna Flori
Leggete queste due poesie: