La casa iniziò a essere illuminata dalle lampadine nell’autunno dello stesso anno.
Gli assegnatari dei terreni all’atto del contratto si impegnarono a versare delle rate per trent’anni e a coltivare nel migliore dei modi queste terre, ricevendo costanti ispezioni da parte dell’ente per verificarne il lavoro e dall’ente stesso dovevano acquistare sementi, armenti, concimi e mangimi e tutto ciò che serviva loro per fronteggiare i lavori. Erano obbligati all’acquisto di materie in grande quantità così che si trovassero sempre nella posizione di debitori nei confronti dell’ente.
Arrivò un momento in cui, parecchi assegnatari schiacciati dai debiti rinunciarono numerosi in tutta la Sardegna, cosicché per effetto di una legge regionale parte di questi debiti vennero abbuonati, purché le terre venissero ancora curate, purché non si rompesse il giocattolo di qualcuno. Quasi tutto il raccolto del grano era da conferire all’ente, tenendo solo due quintali per ogni componente la famiglia. Mia madre ricorda di quella volta che il funzionario, capìta l’entità della quota da lasciare a mio nonno per via dei dodici componenti, pretese una maggior quantità.
Mio nonno, grande e silenzioso lavoratore, esasperato, prese il forcone e glielo puntò alla gola, promettendogli che l’avrebbe usato se si fosse presentato a reclamare più del dovuto. Anche l’uva delle vigne impiantate nel 1957, doveva essere conferita alla Cantina Sociale di Dorgali. Gli obblighi erano veramente tanti, sia in termini economici, versando la rata annuale per l’acquisto delle terre e facendo i salti mortali per saldare i conti aperti per i semi ed attrezzi, che in termini di fatica e di raccolti che prendevano per la maggior parte strade diverse da casa. La fatica era direttamente proporzionale alla fame e mia madre ricorda con tenerezza la mucca che mio nonno riuscì a comprare e che li aiutò a variare la loro dieta. Tardu Runda la chiamarono, perché rientrava tardi, ben oltre l’ora del tramonto ed era forse l’unico spirito libero in quella condizione di obblighi costanti e infiniti.

Poi arrivarono anche le galline e l’alimentazione si arricchì di nuovi nutrienti.
Capitava spesso che mia nonna e Tzia Jacumina Murgia venissero a piedi in paese, con tre ore di cammino, con sos pischeddos pieni di uova da barattare con altri alimenti nelle botteghe, per poi rientrare con la corriera.
Mia madre e mia zia oltre a lavorare nel loro podere lavoravano anche in quelli altrui e si alzavano alle quattro ogni mattina, in modo da aiutare mia nonna ed i fratelli più piccoli, per poi proseguire la fatica nei campi vicini. Raccontano con amore e gioia del loro primo salario, speso da Grecheddu per comprare abiti nuovi ai loro fratelli.
La borgata contava diverse famiglie e numerosissimi ragazzini, braccia utili nei campi. L’ente inviava da Nuoro l’assistente sociale che aveva il compito di seguire quella gioventù dando loro degli incarichi.
Mia madre non fu molto fortunata: l’assistente, la signora Manca, la indirizzò da dottor Zonchello per imparare a fare le iniezioni, che lei temeva come il peggior disastro. Pianse parecchio per quell’incarico, ma conoscendola bene so che inghiottì in fretta ed in silenzio anche quel boccone, e così in capo ad una settimana aveva già imparato. Le fa ancora quando capita, a parenti e vicini di casa, e l’ha insegnato anche a me.
Gli assegnatari e le loro famiglie rappresentavano anche un bel serbatoio di voti sotto la grande croce nazionale: avere altri orientamenti politici era un rischio troppo grande. Una famiglia si apprestava a dare sostegno ad un comunista per un comizio nella borgata e i funzionari, venutolo a sapere, decisero nel giro di poche ore che le ispezioni in quel podere avevano avuto esito negativo. Così alla famiglia venne revocato l’incarico, fu cacciata di casa, perse tutto ciò che aveva versato ed i pochi averi vennero caricati su un mezzo e portati in paese, dove vennero buttati per le vie del centro. Fu tziu Bore Vedele, nella sua bontà a dare alloggio alla famiglia, in quello che a quei tempi, nella piazza Sant’Antonio, era il magazzino della sua attività. Negli anni quelle terre, ormai divenute di proprietà degli assegnatari, diventarono campi coltivati liberamente e le case fruite in maniera più degna.
Io sono arrivata quando le ortensie adornavano l’uscio della casa dei miei nonni e quando dall’orto di fronte il lavoro di mio nonno si traduceva nel profumo inconfondibile dei pomodori maturi appena raccolti. Sono arrivata quando la fatica passata, a me invisibile, aveva già dato i suoi frutti ma ho avuto la fortuna di nutrirmi di questi succulenti frutti, fatti di sacrificio e di semplicità.
Vedere oggi quelle case coloniche circondate da giardini variopinti e profumati non deve far scordare il passato, con tutta la sua polvere e con tutte le lacrime rimaste nascoste e mai asciugate

Ai miei nonni, a mia madre ed ai miei zii, al sudore di tutte le donne e degli uomini, ai giochi mai fatti di tante bambine e bambini e a chi, tutt’oggi, crede che quel tozzo di pane e quei terreni siano piovuti dal cielo.
Millina Spina