Mi assale ancora il freddo, la paura, il desiderio di continuare a fuggire quando nella mente rivedo quello che ho visto allora.
Era ancora giorno, il sole non era ancora scomparso del tutto mentre una pallida luna si rifletteva stanca e indifferente nel mare di Berchida, lì non troppo lontano.
Scorgevo già la nostra casa, quattro mura con il tetto di frasche, e le mie caprette lentamente con le mammelle gonfie di latte seguivano il tratturo che ci avrebbe riportati alla mandra.
Mi fermai in quel piccolo pianoro, da dove tutta la vallata risplendeva e si scorgevano le cime degli alberi di quelle foreste dove querce, sughere, olivastri e sotto di loro i corbezzoli, i mirti, l’aliterno e i lentischi ci contendevano gli spazi delle nostre semine e i pascoli dei nostri animali.
Su masonzu vicino alla casa, la fontana proprio lì accanto, i cani che si rincorrevano accrescevano in me la voglia di rientrare per ritrovare mio padre e mia madre, i miei fratelli più piccoli e raccontare loro la mia giornata lungo i monti e tirar fuori dalla taschedda quella piccola statuetta che avevo intagliato in legno di pero selvatico.
Mi sembrava già di sentir bollire le verdure assieme ad un pezzo di carne di capra che avevamo diviso ieri con i nostri vicini.
Che poi proprio vicini non erano, sparsi anche loro nel grande salto, i Turone, i Pilurzi, i Coronas, i Carzedda e i Taras, con i quali avevamo festeggiato in campagna la Madonna del Rosario, perché il paese era troppo lontano e non era ancora tempo di far rientrare le donne e i bambini più piccoli.
All’improvviso vidi i cani abbaiare furiosi, correre di qua e di là, mentre tutti, mio padre, mia madre i miei fratelli e le mie sorelle uscivano all’aperto per guardarsi intorno e capire qual era la causa di tanta agitazione.
Vidi all’improvviso uscire da ogni cespuglio delle figure maestose che si precipitavano urlando verso la casa, avevano in mano una spada ricurva che mulinavano veloci a colpire tutto ciò che trovavano davanti, alberi, animali e anche i miei fratelli che cercando di scappare erano andati incontro a questi forsennati.
Mio padre rimase impietrito davanti al numero enorme di persone che invadevano il suo ovile, al sangue che cominciava a scorrere, alle urla di paura di mia madre e delle mie sorelle.
Mio padre fu circondato da almeno venti feroci mori, le sue grida furono spezzate all’improvviso da decine di colpi di spada e dopo un po’ solo membra sparse e sangue, e sangue riempivano la terra.
Mia madre, circondata assieme alle mie sorelle da almeno altri quaranta mostri feroci gridava con quanta voce aveva in gola: Sos turiches, sos turiches, uji uji Antoneddu meu, uji uji!
La mia gola, per quanto mi sforzassi non riusciva ad emettere alcun suono, le mie orecchie rimbombavano di urla, le mie gambe erano paralizzate, non sapevo cosa fare.
All’improvviso le urla ancora più disperate di mia madre e delle mie sorelle mi spinsero a fuggire, a tornare indietro correndo, a cercare aiuto presso i Turone o i Coronas o qualsiasi altro volto conosciuto.
Mi venivano dietro solo alcune capre che si erano separate dal resto e insieme arrivammo ad altre case, anche quelle distrutte, anche in quelle sangue di uomini e di animali con un odore tremendo di morte e di disperazione.
Mi avviai disperato verso la foresta, lungo un sentiero che conoscevo solo io e le mie capre e dopo ore ed ore di viaggio nel buio più assoluto caddi finalmente in un sonno profondo e tormentato, riscaldato dalle mie capre che si erano sdraiate al mio fianco.
Giorni e giorni, notti e notti a vagare nella foresta, le mie caprette mi davano il latte ed ogni tanto qualche bacca selvatica ed altre erbe che avevo imparato a conoscere mi alimentavano.
Non so quanto tempo dopo, forse la luna era già cambiata almeno due volte, mi sembrò di sentire in sogno un lamento, un pianto leggero che mi svegliò e mi riempì di paura.
Mi inoltrai ancora di più nella foresta e aspettai che la luce del sole si facesse strada per muovermi meglio e nello spostarmi tra un albero e un altro quasi inciampai in un fagottino che all’improvviso si mise ad urlare e che tra lo spavento suo e mio si rivelò essere la piccola Juannedda Turone.
Crescemmo insieme per anni e anni, costruimmo un nostro piccolo ovile nascosto, le nostre capre si moltiplicarono, io diventai uomo e lei diventò donna, la natura fece il suo corso e nacquero due bambini.
Il nostro linguaggio e quello che trasmettemmo ai nostri figli rimase molto povero, un linguaggio di bambini come eravamo quando sos turiches ci costrinsero a fuggire.
Dopo tanto tempo, ero ormai cresciuto e diventato forte, un cacciatore scoprì il nostro rifugio e ci persuase con parole gentili a ritornare al paese, ci convinse che sos turiches non facevano più paura, perchè i re avevano costruito delle torri vicine al mare per proteggerci tutti.
Quando arrivammo al paese una donna molto vecchia si lanciò quasi tra le mie braccia, scoprii che era mia nonna e non finiva di chiamarmi Antoneddu, Antoneddu, Antoneddu Pau.
I compaesani, pur commossi da tutta la storia, perchè non pensavano che sos turiches avessero lasciato superstiti ne approfittarono per affibbiare alla mia famiglia, alla mia erentzia, per distinguerci da tutti gli altri, il soprannome di SOS PAOS DE SOS TURICHES, come ancora oggi siamo conosciuti.
Antonio Murru